Olimpia Fontana
Commento n. 202 - 1 dicembre 2020
Che la crisi da Covid-19 non sarebbe stata come le altre in Europa lo abbiamo capito da tempo. Non solo per il protrarsi delle misure di contenimento da parte dei governi, ma anche per l’accelerazione nel processo di integrazione europea che la pandemia sta producendo. A differenza di quanto avvenuto dopo il 2008, con l’attuale crisi molte delle soluzioni fornite dalla Ue rispondono a un’istanza di cambiamento dell’architettura istituzionale dell’eurozona. L’indicazione espressa nel Rapporto dei Quattro Presidenti, apparso nel 2012, di introdurre elementi di fiscalità europea ha aperto un acceso dibattito sulla capacità fiscale dell’eurozona a cui però non ha fatto seguito alcuna modifica sostanziale. Sino alla primavera scorsa, quando sono caduti alcuni dei tabù che pesavano sulla governance economica europea, permettendo innovazioni senza precedenti, per l'intera Unione.
Il principale punto di svolta è rappresentato dalla decisione di emettere titoli di debito europeo da parte della Commissione in quantità significativa. Non che tali emissioni non esistessero prima: già dal 2008 la Commissione per conto dell’Ue raccoglie fondi sul mercato attraverso titoli di debito e ne gira poi i proventi ai paesi che ne fanno richiesta. Ciò è successo nel caso di Ungheria, Lettonia, Romania, Georgia per problemi nella bilancia dei pagamenti e durante la crisi finanziaria per sostenere Irlanda, Portogallo e Grecia attraverso il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (il Fondo salva-stati sostituito poi dal Meccanismo europeo di stabilità - Mes). Un totale di titoli per circa 70 miliardi di euro che nei prossimi anni è destinato almeno a decuplicare. La Commissione diventerà il principale emittente sovranazionale a livello globale, affiancandosi all’azione della Banca europea per gli investimenti (Bei), che ha messo a disposizione un fondo di garanzia pan-europeo da 200 miliardi, e del Mes, che ha dedicato una linea di credito specifica per sostenere con prestiti spese sanitarie dirette e indirette, per un totale di 240 miliardi di euro.
In effetti, i recenti programmi europei nati in risposta al Covid per dare sostegno sia ai lavoratori (SURE) sia alle economie nazionali più colpite (Next Generation EU - NGEU) si finanzieranno attraverso nuovo debito comune per un totale di 850 miliardi di euro, spalmati tra il 2020 e il 2024. Data la scarsa disponibilità dei paesi membri ad aumentare i propri contributi nazionali, l’emissione di debito è un modo con cui si può disporre di risorse più consistenti, a cui si può abbinare l’introduzione di nuove risorse proprie nella forma di imposte europee. Esse permetteranno di ripagare nel tempo il debito dalla Commissione, alleggerendo così la componente dei contributi nazionali. Il tutto in aggiunta al bilancio comunitario settennale (2021-2027), che dopo il recente accordo fra Parlamento europeo e Consiglio dell’Ue dovrebbe ammontare a circa 1.090 miliardi di euro.
Che questa soluzione risponda alle richieste da tempo mosse di una capacità fiscale europea è dimostrato dal successo con cui lo scorso ottobre si è conclusa la prima emissione di Social bonds (i titoli legati a SURE), che ha visto una domanda di titoli di 13 volte superiore all’offerta effettiva, con 17 paesi membri che hanno richiesto il SURE. Che in Europa si sia accesa una rinnovata volontà politica è suggerito anche dall’esplicito endorsement da parte della Germania, che ha svolto un ruolo fondamentale nel ridimensionare le posizioni di ostruzionismo dei paesi (sedicenti) “frugali” (Olanda, Austria, Svezia e Danimarca).
Inoltre, coi bond europei viene fornito al mercato un safe asset che permette agli investitori una buona combinazione tra rendimento e rischio. Pur configurandosi come un titolo privo di rischio per definizione, perché garantito dall’insieme dei paesi dell’Unione, essi consentono un rendimento più attraente a confronto degli altri titoli di riferimento presenti sul mercato. Il tasso di interesse pagato sui titoli SURE è tra il -0,238% (per il bond decennale) e il +0,131% (quello ventennale), valori che sono comunque maggiori di quelli relativi ai bund tedeschi o ai titoli francesi.
Il secondo segnale di cambiamento è dato dall’inaspettata scelta da parte dei paesi dell’eurozona di non ricorrere (per ora) al Mes, la struttura intergovernativa nata nel 2012 per gestire la crisi del debito sovrano, considerata da alcuni una forma di solidarietà tra paesi, da altri un modo per condannare uno stato in difficoltà a misure fallimentari di presunta “austerità espansiva”. Il fatto che i paesi membri preferiscano rivolgersi a strumenti quali il SURE e il NGEU pone qualche dubbio se il Mes sia oggi politicamente sostenibile o se sia invece più che mai opportuno riformarlo, portandolo all’interno del quadro legale comunitario. Già a fine 2017 la Commissione Juncker aveva proposto una modifica del Mes in questo senso, conferendogli il compito di supporto in caso di risoluzione di crisi bancarie sistemiche. In alternativa lo si potrebbe rendere uno strumento di prestito per finanziare investimenti in beni pubblici forniti dalle amministrazioni locali, come il trasporto pubblico e le infrastrutture sociali.
In terzo luogo, la sospensione delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita, decisa a marzo scorso, apre la strada a un processo di riforma nell’approccio alla politica economica europea. La tendenza mostrata nella precedente crisi di tagliare la spesa per investimenti quando le finanze pubbliche finiscono sotto pressione deve lasciare spazio a un atteggiamento opposto. È proprio nelle situazioni di grave crisi che gli investimenti pubblici mostrano il loro maggiore potenziale sulla crescita. Inoltre, l’accumulazione di debito che i paesi stanno vivendo rende inverosimile il parametro di Maastricht del debito pubblico al 60% del Pil. Sarà quindi necessaria una revisione del quadro normativo nell’eurozona, superando regole opache, complicate e inefficaci.
Lo European Fiscal Board, comitato consultivo indipendente della Commissione, sostiene la necessità di introdurre una golden rule sugli investimenti di tipo funzionale, in cui la decisione tra quali spese vadano sostenute con debito debba basarsi non su una definizione contabile di investimento, bensì su una scelta politica, che rifletta la strategia di crescita dell’Ue (il Green deal europeo). Sarebbero preservati investimenti quali la sanità, l’istruzione, la neutralità climatica e la trasformazione digitale. Il tutto in coordinamento con il programma di acquisto di titoli della Bce (il quantitative easing pandemico da 1.350 miliardi di euro), che contribuisce a mantenere calmi i mercati e permette ai governi di beneficiare di tassi molto bassi sul proprio debito.
Anche se le misure con cui l’Ue ha risposto alla crisi sono state presentate come temporanee finora non sono previste scadenze per un ritorno alla “normalità”. Ma considerato che alla gestione della pandemia si aggiunge la crisi ambientale, all’Ue conviene proseguire nella direzione intrapresa, così da realizzare quegli investimenti nell’ordine di centinaia di miliardi l’anno richiesti dalla transizione energetica. La potenza di fuoco da 3.600 miliardi di euro messa in campo dall’Europa apre alla speranza che l’Unione saprà ulteriormente superare le residue riserve e adottare strumenti adeguati alle necessità.
*Ricercatrice al Centro Studi sul Federalismo (pubblicato ieri da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)