Nasce dai giovani un movimento cosmopolita contro il riscaldamento globale

Roberto Palea
Commento n. 144 - 19 marzo 2019

Le dichiarazioni della giovanissima attivista svedese Greta Thunberg – che hanno fatto il giro del mondo e provocato la scintilla che, venerdì scorso, ha portato centinaia di migliaia di giovani di oltre un centinaio di Paesi a manifestare contro l’inattività dei governi di fronte al riscaldamento globale – mi hanno ricordato la fiaba danese di Andersen sui vestiti nuovi dell’imperatore, in cui la voce di un bambino innocente, che osò gridare "il re è nudo", indicò la verità alla moltitudine di sudditi compiacenti o, soltanto, creduloni.

Come Greta ha detto rivolgendosi ai propri genitori, ai loro coetanei e a chi governa il mondo, parlando di fronte ai partecipanti alla COP24 a Katowice, nel dicembre scorso: "un giorno, forse, i miei figli mi chiederanno di voi, perché non avete fatto niente, quando c’era ancora tempo per agire. Dite di amare i vostri figli più di ogni altra cosa al mondo eppure gli state rubando il futuro, proprio di fronte ai loro occhi. Non siete abbastanza maturi per dire le cose come stanno. (…) La politica è responsabile anche verso gli elettori di domani (...)".

Con queste parole d’ordine, milioni di giovani e di giovanissimi sono entrati da protagonisti nel mondo a ricordare che non c’è più tempo: o cambieremo modello di sviluppo, ancora basato sulle energie fossili e non su quelle rinnovabili, senza riciclo dei rifiuti urbani ed industriali e grande spreco di acqua e di risorse naturali (per definizione "finite"), oppure rischiamo di compromettere l’esistenza stessa del genere umano.

Nel breve periodo, rischiamo di precipitare in una crisi economico-finanziaria peggiore dell’ultima, quella del 2008, e conoscere violenze ancora peggiori di quelle delle guerre cui stiamo assistendo, perché il consumo ineguale delle risorse naturali e le migrazioni generate dalla progressiva desertificazione dei suoli acuiranno ulteriormente i conflitti e le tensioni tra i popoli.

D’un tratto, risultano irresponsabili e gravemente colpevoli, nei confronti dei cittadini e delle generazioni future, le dichiarazioni sia di Trump, secondo cui l’America avrebbe usato ogni fonte energetica disponibile per sostenere la sua crescita economica, sia dei governi di mezzo mondo, sviluppati e non, che hanno ribadito che la lotta ai cambiamenti climatici sarebbe dovuta partire altrove, non certo dal loro Paese.

I manifestanti dei #FridaysforFuture hanno marciato in tutto il mondo sostenendo slogan di analogo contenuto e dimostrando un livello di consapevolezza e di informazione veramente encomiabile. Si sono presentati completamente liberi da condizionamenti dei partiti politici e hanno saltato ogni gerarchia nei livelli di governo, rivolgendosi collettivamente ai governi del mondo intero, alla cui inattività o inadeguatezza d’azione imputano il disastro ambientale.

Con il riferimento costante agli Accordi sul clima di Parigi del dicembre 2015 e al rapporto speciale dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) del dicembre 2018, essi dimostrano di volersi interfacciare direttamente, a livello globale, con l’ONU e in particolare con il Segretariato dell’UNFCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) che presiede le trattative intergovernative sul clima, riconoscendo il carattere "globale" del cambiamento climatico, da affrontare insieme, da parte di tutti i Paesi della Terra.

Visto il ruolo di leadership assunto dall’Unione Europea (UE), la risposta al movimento dei giovani spetta in primo luogo ad essa. A tal proposito e come già ricordato in un mio precedente commento, il Parlamento Europeo, nella plenaria del 25 ottobre scorso, in coerenza con la soglia critica di +1,5°C (limite da non superare, dall’inizio dell’era industriale, per evitare il disastro ambientale), ha proposto di rivedere l’obiettivo di riduzione delle emissioni climalteranti al 2030, indicandolo nel 55%, anche per costituire un forte traino per gli altri Paesi, nell’ambito dell’Alleanza degli Ambiziosi di cui l’UE fa parte. Tenuto conto delle ripetute dichiarazioni di disponibilità della Commissione Europea, si può sperare che tale obiettivo venga confermato.

L’UE dovrebbe dar vita a un’Agenzia per l’Ambiente e l’Energia, costituita secondo il modello della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA) del 1951, dotata di poteri sovranazionali e mezzi finanziari adeguati. Con ampia autonomia e sotto una regia unitaria, sarebbe possibile attuare efficaci politiche per ridurre le emissioni inquinanti, sviluppare le energie rinnovabili per raggiungere l’autosufficienza energetica dell’Unione, avviare l’economia circolare. Senza dimenticare l’impegno che l’UE deve assumere, con maggiore incisività, in partnership con i Paesi interessati, nei confronti del fenomeno migratorio e a favore dello sviluppo economico dell’Africa, mettendo a disposizione le tecnologie di cui dispone, anzitutto per produrre l’energia elettrica nei Paesi solarmente ricchi, fattore indispensabile per la crescita dell’agricoltura, dell’artigianato e dell’industria.

L’Agenzia per l’Ambiente e l’Energia europea potrebbe finanziare la propria attività attraverso l’imposizione di una carbon tax, come più volte abbiamo esposto e secondo le modalità già precisate.

Il movimento cosmopolita contro il riscaldamento globale può trovare una bussola e un programma nel sostegno a questa proposta che, se attuata, accrescerebbe il ruolo strategico dell’UE conferendole la forza per estendere le proprie iniziative al mondo intero e assicurare alla politica ambientale globale il salto di qualità che finora è mancato.

*Membro del Consiglio Direttivo e già Presidente del Centro Studi sul Federalismo

Download pdf

Centro Studi Federalismo

© 2001 - 2024 - Centro Studi sul Federalismo - Codice Fiscale 94067130016

Fondazione Compagnia San Paolo
Le attività del Centro Studi sul Federalismo sono realizzate con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo
Fondazione Collegio Carlo Alberto
Si ringrazia la Fondazione Collegio Carlo Alberto