Oltre il PIL: la sostenibilità come politica economica

Oltre il PIL: la sostenibilità come politica economica

Olimpia Fontana
Commento n. 212 - 2 marzo 2021  

Unire la dimensione della prosperità economica con quella della sostenibilità ambientale e sociale è uno dei capisaldi della strategia di sviluppo promossa dall’Ue. Lo European Green Deal (EGD) ne è una chiara dimostrazione, mirata a rivoluzionare il nostro modo di produrre e consumare. Ma anche riguardo a come si misura il benessere, l’Ue è in prima linea nel promuovere l’utilizzo di nuovi indicatori che possano andare oltre il mero calcolo del PIL.

Già nel 2007 la Commissione europea, con il Parlamento ed altri partner internazionali, aveva lanciato la conferenza "Beyond GDP", con l’obiettivo di individuare gli indici più appropriati per misurare il progresso. Come disse il Presidente della Commissione José Manuel Barroso, “il PIL è un indicatore dell'attività economica di mercato. Non è stato pensato per essere una misura accurata del benessere”. Esso infatti misura il valore monetario di ciò che viene prodotto: rappresenta il benessere derivato dal consumo, ma non è in grado di differenziare le attività sulla base del loro impatto sociale e ambientale. Pur essendo uno strumento utile per la politica economica, non è quindi adatto a raccontare molto di quello che più preoccupa oggi, come il cambiamento climatico, la diseguaglianza o la qualità della salute pubblica.

In quegli stessi anni, poi segnati dalla crisi finanziaria, proliferò una serie di iniziative per mettere a punto indicatori relativi al benessere e alla sostenibilità in tutte le sue dimensioni. Il gruppo di esperti di alto livello (nota come la Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi), incaricato dall’allora Presidente francese Nicolas Sarkozy, è stato solo uno degli innumerevoli sforzi volti ad accrescere la multidimensionalità del benessere e a sensibilizzare le istituzioni delle profonde implicazioni che tale esercizio statistico può avere in termini di policy making. Tuttavia, uno dei principali limiti della ricerca riguarda la difficoltà di tradurre in un unico numero – il più possibile comparabile e oggettivo – la mole di dati raccolti in ambiti molto diversi tra loro, che faticano a sintetizzarsi in un indicatore tanto immediato quanto il PIL, senza il rischio che le informazioni sottostanti si disperdano.

In Europa non solo la Francia ha dimostrato lungimiranza e capacità di iniziativa. L’Italia è uno dei paesi all’avanguardia nel panorama internazionalesulla misurazione multidimensionale: nel 2013, grazie soprattutto al lavoro dell’ISTAT, sono stati introdotti gli indicatori BES (Benessere Equo e Sostenibile), che a partire dal 2018 sono inclusi nel processo di programmazione economica del paese, attraverso il Documento di economia e finanza. A livello di Unione alcuni progressi sono stati fatti con l’introduzione di una serie di indicatori accessori all’analisi macroeconomica riguardanti il mercato del lavoro. Tuttavia, si tratta di misure ausiliarie che non modificano il tradizionale approccio al PIL e l’attenzione sulle variabili di natura economica.

L’effettiva implementazione di misure alternative al PIL all’interno della realtà europea è finora risultata difficile a causa anche di fattori politici, quali l’assenza di una forte narrativa a loro sostegno nel dibattito pubblico, nonché la mancanza di un chiaro imperativo politico da cui possa scaturire la spinta per un cambiamento istituzionale. Per superare tali ostacoli è necessario che le istituzioni siano indotte a stimolare un maggiore dibattito circa il tipo di società che i cittadini desiderano, oltre a garantire che nuovi strumenti analitici vengano incorporati nei processi decisionali. A tal riguardo, il ruolo di indicatori aggiuntivi è almeno duplice. In primo luogo, servono a monitorare e valutare meglio il progresso della nostra società rispetto a determinati obiettivi politicamente condivisi. In secondo luogo, possono orientare la politica economica, con particolare riferimento alle scelte di politica fiscale.

Rispetto al primo punto, va ricordato che l’Ue ha fatto propri i Sustainable Development Goals (SDGs), gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che forniscono i valori di riferimento in diversi ambiti, tra cui la sostenibilità ambientale e l'inclusione sociale, cui i paesi devono tendere. Attraverso l’elaborazione dello SDG Index sappiamo – senza troppa sorpresa – che esiste una netta contrapposizione tra i paesi del Nord dell’Ue, meglio posizionati, e quelli del Sud e dell’Est. Ciò che desta più preoccupazione è non solo che nessun paese membro sia sulla buona strada per raggiungere tutti gli SDGs, ma soprattutto che i peggiori risultati riguardino i settori improntati alla sostenibilità ambientale, tra cui il consumo responsabile, la lotta contro il cambiamento climatico, la protezione di flora e fauna acquatica e terrestre e la lotta alla fame, a causa di diete e pratiche agricole e di allevamento non sostenibili. Ricorrendo all’SDG Index risulta poi evidente che la classifica dei paesi in base alla dimensione del PIL si modifica una volta considerate altre dimensioni di benessere: ad esempio, l’Italia dall’essere uno dei paesi più ricchi dell’Ue, scende al diciassettesimo posto, senza aver ancora raggiunto nemmeno uno dei diciassette SDGs.

In quest’ottica, e considerando l’investimento di capitale politico che la Commissione sta mobilitando nell’EGD, si inserisce la necessità di ricorrere agli indicatori beyond GDP per orientare il policy making. La Presidente Ursula von der Leyen ha espresso l’intenzione di collegare il Semestre europeo – il caposaldo della governance economica tra gli Stati membri – agli SDGs. Il Semestre nasce nel 2010 durante la crisi dell’eurozona, come strumento per monitorare non solo ex post ma anche ex ante, attraverso raccomandazioni specifiche, le finanze pubbliche dei paesi. A fare da guida – almeno fino allo scoppio della pandemia – le regole fiscali del Patto di Stabilità e Crescita improntate alla prudenza di bilancio. La pandemia ha portato a una sospensione temporanea del Patto, fino almeno a tutto il 2021, condizionandone anche il processo di riforma. L’apparato delle regole fiscali richiedeva da tempo di essere riformato: nel nuovo Patto sarà importante accordare una via preferenziale alla spesa pubblica orientata agli SDGs. Per esempio, la possibilità, suggerita dallo European Fiscal Board, di una green golden rule permetterebbe di scorporare dalle regole di sostenibilità finanziaria gli ingenti investimenti necessari contro il cambiamento climatico.

La sfida che l’Ue si è data per il 2050 – diventare un continente a zero emissioni in un modo che sia socialmente inclusivo – ha pervaso la narrativa dei decisori politici degli ultimi due anni non solo a livello europeo, ma anche nazionale. “Ecologico” e “sociale” sono diventati termini e ambiti importanti almeno quanto la crescita economica. Questa spinta al cambiamento nel modo di pensare il nostro benessere deve consentire all’enorme lavoro portato avanti da esperti accademici, enti di ricerca e organizzazioni internazionali sugli indicatori alternativi al PIL di non restare un sofisticato esercizio statistico ma di servire alle scelte della politica economica. 

*Mario Albertini Fellow del Centro Studi sul Federalismo (pubblicato ieri da Europea, la piattaforma dei think tank su Euractiv.it)

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