Il valore strategico del Green Deal europeo

Roberto Palea
C
ommento n. 164 - 8 gennaio 2020  

La Commissione Europea ha fornito le prime precisazioni sui contenuti del Green Deal Europeo (GDE) nella sua Comunicazione dell’11 dicembre scorso. Il piano per il GDE merita la massima considerazione, soprattutto nell’attuale fase di gestazione, perché ha le potenzialità per: ridurre a zero le emissioni di gas a effetto serra in Europa entro il 2050, con un abbattimento del 50/55% già entro il 2030; dimostrare al mondo che la transizione a una economia sostenibile non è solo necessaria ma anche realizzabile, in tempi brevi; rilanciare lo sviluppo economico in modo sostenibile, alleviando, nel contempo, le diseguaglianze sociali e il dramma della disoccupazione, soprattutto giovanile.

Tutto ciò potrebbe riconciliare la gran massa dei cittadini con il progetto di unificazione europea, di cui l’UE è l’espressione, gettando così le basi per realizzare le riforme istituzionali di cui l’Unione necessita, per renderla più efficiente, più democratica, più federale. Il GDE ha, quindi, una valenza strategica e può rappresentare una vera svolta nella storia dell’unificazione europea, sebbene nella citata Comunicazione molti aspetti operativi siano ancora affrontati in modo inadeguato.

1. L’entità delle risorse finanziarie che si intende impiegare pare insufficiente. La Commissione intende dotare il piano per il Green Deal Europeo di 100 miliardi di euro all’anno per dieci anni, con l’obiettivo di realizzare investimenti addizionali annui di 260 miliardi, corrispondente all’1,5% del PIL dell’insieme dei Paesi UE, mutuando sul mercato nuove risorse finanziarie per 160 miliardi di euro all’anno. La stessa Commissione definisce detta somma prudenziale, in quanto non comprende gli investimenti per l’abbattimento climatico o per altre sfide ambientali, quali la tutela della biodiversità, i costi sociali della transizione e quello dell’inattività delle imprese coinvolte in questa transizione “verde”.

In effetti è necessaria una vera “rivoluzione verde”, che comporta l’elettrificazione di tutta l’energia necessaria all’attività umana, che verrebbe, nell’arco di 10/15 anni, prodotta soltanto dalle fonti alternative a quelle fossili (in particolare, dall’idroelettrico, dal solare, dall’eolico, dalle biomasse), per l’industria, per la mobilità, nelle nuove costruzioni, nella ristrutturazione dei fabbricati esistenti, nella riorganizzazione delle città, nell’agricoltura.

Si comprendono, quindi, le stime della Corte dei Conti europea (1.000 miliardi di euro per 10/30 anni), dell’economista Nicholas Stern, degli esperti francesi della Caisse des Dépôts e di altri enti, che quantificano gli investimenti necessari alla riconversione energetica nel 2% del PIL europeo per 10/30 anni.

2. Non è chiaro quale istituzione dovrà gestire l’ingente flusso di risorse e provvedere al finanziamento, sul mercato dei capitali, sotto la supervisione tecnica della Banca Europea per gli Investimenti.

La proposta più razionale ed efficiente sembra essere quella di affidare la gestione della complessa operazione di “decarbonizzazione” a una Comunità europea specializzata, indipendente, sovraordinata agli Stati, dotata della capacità di indebitamento e di rapido intervento, simile, nella sua struttura, alla Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), che dal 1952 gestì, nell’interesse comune di tutti gli Stati membri, le risorse energetiche e produttive dell’epoca, il carbone e l’acciaio, con indiscutibili vantaggi per i cittadini europei.

Si potrebbe, all’uopo, riprendere il riferimento dell’allora Presidente Juncker alla riforma del trattato dell’ancora esistente e funzionante EURATOM (la “Comunità Europea dell’Energia Atomica” - CEEA): la nostra proposta è che ne siano modificate finalità e denominazione, che diventerebbe “Comunità Europea per l’Energia e l’Ambiente” (CEEA).

3. Per quanto riguarda i flussi di risorse da affidare in gestione alla suddetta Comunità, la Commissione ha proposto di istituire una carbon tax alle frontiere per preservare parità di condizioni tra le imprese europee e quella dei loro competitors di altri continenti, anche per ridurre il rischio di rilocalizzazione delle emissioni di carbonio (carbon leakage).

Tuttavia, al fine di evitare distorsioni nella concorrenza sul mercato interno, sul quale vigono, nei vari Stati membri, prezzi dei carburanti fossili molto differenti tra di loro, occorre istituire un adeguato “carbon pricing” per internalizzare il costo del carbonio emesso nel prezzo dei beni e prodotti, uniformando il valore delle “accise” tra i Paesi europei, mediante un prelievo perequativo fissato nella forma e secondo le procedure di un Regolamento promosso dalla Commissione.

La carbon tax alle frontiere e il “carbon pricing” imposto dal Regolamento promosso dalla Commissione, all’interno dell’UE, dovrebbero generare un ingente flusso di risorse (da 70 a 100 miliardi all’anno), a seconda del costo del carbonio adottato (da 50 a 100 euro per tonnellata di CO2 emessa nell’atmosfera), da far confluire alla nuova CEEA.

La nuova Comunità dovrebbe avere il compito principale di assicurare l’equità sociale e sostenere la transizione ecologica. In particolare essa dovrebbe provvedere:

- alla elettrificazione del sistema energetico mediante l’impiego delle energie rinnovabili (idroelettrico, solare, eolico, biomasse), al sostegno tecnologico e alla formazione degli addetti;
- al finanziamento delle opere di prevenzione dei disastri ambientali;
- alla riduzione degli oneri fiscali sul lavoro subordinato e alla istituzione di un “welfare” integrativo, soprattutto a favore dei lavoratori coinvolti nella transizione ecologica;
- alla cooperazione, nel settore energetico, con i Paesi dell’Africa, per promuoverne lo sviluppo economico.

4. Tutti gli investimenti effettuati dalla nuova CEEA, direttamente o tramite gli Stati membri, in quanto investimenti (e non spese correnti), realizzati nell’interesse generale dei cittadini europei, non dovrebbero essere conteggiati nel calcolo del deficit pubblico dello Stato in cui gli investimenti verranno realizzati (ovvero esclusi dal limite del 3% fissato dal Trattato di Maastricht). In tal modo l’intervento europeo allevierebbe la pressione del debito e del deficit pubblici a carico dei singoli Stati. Inoltre detti investimenti creerebbero milioni di nuovi e buoni posti di lavoro. I cittadini europei percepirebbero i vantaggi di far parte dell’UE, beneficiando così, indirettamente, di un consistente “carbon dividend”.

*Roberto Palea, già Presidente del Centro Studi sul Federalismo, è membro dell’Associazione Italiana degli Economisti dell’Ambiente e delle Risorse naturali (AIEAR)

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