Difesa e transizione ecologica: perché occorre un debito comune europeo

Difesa e transizione ecologica: perché  occorre un debito comune europeo

Alberto Majocchi

Commento n. 291 - 28 marzo 2024

Il Consiglio europeo di Bruxelles del 21-22 marzo scorsi si è concentrato sui problemi della guerra e sui possibili sviluppi del processo che dovrebbe portare a un rafforzamento della difesa europea. Su questi temi sono poi apparsi due importanti editoriali, su Il Sole 24 ore e sul Corriere della Sera, a firma rispettivamente di Sergio Fabbrini e Francesco Giavazzi.

In “Un’Europa centrifuga di fronte alla guerra”, Fabbrini, dopo aver ricordato la difficoltà – a pochi mesi dalle elezioni europee – di prendere decisioni impegnative su un tema su cui esistono posizioni divergenti fra i paesi membri, sottolinea un aspetto istituzionale rilevante: “l’UE non è in grado di identificare una posizione collettiva (europea), ma è costretta a far coincidere l’interesse europeo con la somma degli interessi nazionali”. E richiama inoltre il fatto che per finanziare le spese per la difesa alcuni paesi sottolineano la necessità di ricorrere all’emissione di debito europeo, ma su questo progetto la Germania e i cosiddetti paesi frugali esprimono ancora una valutazione negativa.

Sull’opportunità di ricorrere a un finanziamento delle spese per la difesa attraverso un debito comune, come è avvenuto con Next Generation EU (NGEU) ai tempi della pandemia, ritorna nuovamente Giavazzi, sottolineando come un’integrazione dei sistemi di difesa possa generare notevoli risparmi, legati anche allo sfruttamento delle economie di scala che ne potrebbero conseguire. Ma soprattutto Giavazzi argomenta ricordando come le spese per la difesa, così come quelle per la transizione ecologica, “sono un costo per la nostra generazione, ma ne beneficeranno soprattutto le generazioni future. È quindi giusto che anch’esse contribuiscano al loro finanziamento, accollandosi in futuro l’onere di ripagare il debito”.

Le valutazioni qui ricordate sono certamente corrette, anche se per quanto riguarda la sicurezza europea, e quindi il problema della difesa, appare di fondamentale rilievo, accanto al finanziamento degli investimenti necessari per integrare i sistemi difensivi dei 27 paesi, una forte manifestazione di una volontà politica comune e decisa a resistere a pressioni esterne, in particolare se accompagnate da minacce di uso della forza. In sostanza, la nuova Commissione dovrà sottolineare con forza che, per difendere i suoi cittadini e la loro sicurezza, l’Unione “is ready to do whatever it takes”, come affermato da Mario Draghi nel suo famoso intervento del luglio 2012, che segnò un punto di svolta per la difesa dell’euro.

Il problema del finanziamento con l’emissione di debito si presenta con altrettanta evidenza per quanto riguarda la transizione ecologica. Nonostante le difficoltà emerse recentemente a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina e del conflitto nella Striscia di Gaza, l’Unione ha sempre riconfermato gli obiettivi del Green Deal per una riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030, al fine di raggiungere la neutralità carbonio nel 2050, promuovendo altresì l’inclusione sociale e la tutela dei territori più deboli o particolarmente colpiti dalla riconversione energetica, con la conseguente necessità di garantire una quantità di investimenti molto elevata, anche da parte del settore pubblico europeo.

Nel gennaio 2020 la Commissione ha presentato un “Piano di investimenti per un’Europa sostenibile”, che si proponeva di mobilitare gli investimenti necessari per raggiungere gli obiettivi climatici ed energetici dell'Unione nel 2030. A seguito dello scoppio della pandemia, il Piano di Investimenti europeo è stato sostituito dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (DRR), con una notevole potenza di fuoco (723 miliardi di euro, di cui 338 miliardi di euro in sovvenzioni), che costituisce la quota maggiore di NGEU e prevede una soglia minima del 37% destinata agli investimenti climatici.

Fino alla scadenza di NGEU nel 2026 le sovvenzioni destinate a sostenere gli interventi necessari per far fronte ai cambiamenti climatici ammontano a circa 50 miliardi di euro all'anno (circa lo 0,3% del Pil dell'Unione). Dopo questa data, il livello diminuirà a poco meno di 20 miliardi di euro l'anno. Secondo le stime di Pisani-Ferry, Tagliapietra e Zachman, la fine della disponibilità di fondi distribuiti dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza genererà così un divario pari a 180 miliardi di euro fra il 2024 e il 2030, che dovrà necessariamente essere colmato, in quanto gli attuali 50 miliardi di euro annuali rappresentano il livello minimo indispensabile affinché l'Unione, grazie anche al contributo dei paesi membri e del settore privato, possa svolgere un ruolo significativo per garantire gli investimenti necessari per sostenere la transizione ecologica.

La stima generalmente accettata prevede che la riduzione del 55% delle emissioni entro il 2030 richieda ulteriori investimenti in energia e sistemi di trasporto (rispetto al livello di investimenti del periodo 2011-2020) pari a circa 356 miliardi annui (2% per cento del Pil europeo), con una quota di investimenti del settore pubblico variabile fra lo 0,5% e l’1% del Pil. Stime più recenti della Commissione, riportate da Lucrezia Reichlin in un editoriale del 16 marzo scorso sul Corriere della Sera, prevedono che la somma da investire raggiunga i 480 miliardi. D’altra parte, l’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti ha messo in campo più di 700 miliardi di dollari di sussidi per incentivare investimenti in energia rinnovabile. 

Un livello così elevato di investimenti deve essere finanziato attraverso l’emissione di debito, e questo implica la necessità di un aumento del tetto per le risorse proprie che alimentano il bilancio europeo. Ma per la creazione di nuove risorse l’articolo 311 del Trattato prevede la procedura più complessa, con voto all’unanimità in Consiglio e ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Occorrerà procedere a una riforma di questo articolo, in un contesto politico, dopo le elezioni di giugno, in cui sarà all’ordine del giorno la soppressione del diritto di veto e la generalizzazione del voto a maggioranza. E questo, in attesa di una riforma più profonda auspicata recentemente con una risoluzione del Parlamento europeo, potrebbe avvenire inserendo una clausola ad hoc nei Trattati che verranno stipulati in occasione dell’entrata di nuovi paesi nell’Unione europea.


*Professore Emerito di Scienza delle Finanze all’Università di Pavia, membro del Comitato Scientifico del Centro Studi sul Federalismo

Download PDF - Commento n. 291

Centro Studi Federalismo

© 2001 - 2024 - Centro Studi sul Federalismo - Codice Fiscale 94067130016

Fondazione Compagnia San Paolo
Le attività del Centro Studi sul Federalismo sono realizzate con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo
Fondazione Collegio Carlo Alberto
Si ringrazia la Fondazione Collegio Carlo Alberto